martedì 19 ottobre 2010

Cenni Storici della localtà (ALBARO)

CASALE ALBARO
Origini storiche
Sottomesse ormai alla signoria dell’oblio le vere origini del casale Albaro sfumano nelle fitte brume del passato…, esse si inseriscono comunque nel periodo aureo dell’Impero Romano e alle successive vicissitudini che lo consegnarono a quel degrado cui il paesaggio agrario andò incontro in seguito alla decadenza dell’Impero stesso. Nel 456 il territorio subisce, infatti, il saccheggio dei Vandali di Gianserico; nel 538 è la volta dei Greci a cui fecero seguito, nel 547, le invasioni gotiche di Totila. Saranno proprio queste guerre greco-gotiche (535-553) - combattute dai Bizantini per volere dell’imperatore Giustiniano intenzionato a riunire l’Impero Romano sotto l’egida di Costantinopoli - a rendere il territorio ancor più vulnerabile che, impotente, nel 662 subirà l’ulteriore scorribanda dei Longobardi. Tali crisi, unite alla drastica riduzione di manodopera servile, costrinsero le popolazioni locali ad abbandonare vecchi agglomerati urbani e ad occuparne altri o a costruirne di nuovi. Alla riorganizzazione e ristrutturazione di questi casali (centri agricoli autosufficienti) contribuirono, in certa misura, anche i monaci Basiliani profughi dal vicino Oriente.
Il ritrovamento in zona di alcune monete di epoca Bizantina ma soprattutto il rinvenimento di preziosissimi “Sesterzi” risalenti al periodo Neroniano (cfr. DE SIMONE, “Lecce e i suoi monumenti” I, 191) hanno indotto alcuni storiografi a fissare la nascita di Albaro intorno al I secolo d.C. Con ragionevole attendibilità si può affermare che la sua primitiva destinazione fu di accampamento (castra) per guarnigioni romane oppure il centro di una qualche attività commerciale. La sua posizione strategica di connessione tra la costa e l’entroterra fece sì che, in epoche successive, da quest’area si irradiasse anche una fitta rete viaria di distribuzione alle diverse unità colturali presenti nella zona. In quel periodo, difatti, la vicina marina Sasinae portus - l’odierna Porto Cesareo - costituiva il suo principale centro di riferimento.
Nel IX secolo il territorio subisce le incursioni dei Saraceni di Sicilia e la sua vicinanza col mare favorirà le successive scorrerie piratesche che, tra medioevo ed età moderna, tormenteranno le coste salentine. Una relativa tranquillità viene raggiunta con l’avvento dei Normanni (XI sec.) che, organizzando i loro possedimenti in baronie, si occupavano anche delle difese del territorio.
Nel 1266 Carlo I d’Angiò, dopo aver fondato la Contea di Copertino, assume la proprietà del casale Albaro. Passano solo due anni e la proprietà passa a Gualtieri di Brienne, duca di Atene e conte di Lecce. In seguito all’acuirsi della guerra tra Giovanna Ia d’Angiò regina di Napoli e Francesco del Balzo duca di Andria nel 1373 il casale viene distrutto costringendo i superstiti a rifugiarsi nel più importante dei centri più vicini: Leverano. A tal proposito Girolamo Marciano (illustre medico, letterato e corografo leveranese, morto nel 1628) nella sua opera “Descrizione, origine e successi della Provincia d’Otranto”, così scrive:

...«E nel 1373, o secondo il Coniger 1378, Francesco del Balzo Duca di Andria, rottosi colla Regina Giovanna Ia, condusse nel regno di Napoli Giovanni Montacuto, capitano Bretone con seimila Brettoni ed Inglesi; (…) passò nell’assedio della città di Lecce, e nel passaggio distruggendo quanti luoghi incontrava della Regina distrusse con repentino assalto il Casale Albaro, i cui abitatori si ridussero ad abitare in questa terra. [Leverano]»…

Il casale Albaro conosce un periodo di abbandono finché nel ’600 la famiglia Goffreda ne acquisisce la proprietà trasformando il complesso in masseria. Non è dato sapere se fu la stessa famiglia a costruire - ma di certo restaurò - una piccola cappella rurale dedicata a S. Vincenzo. Detta cappella è infatti menzionata nei Documenti dell’Archivio parrocchiale della Chiesa SS. Annunziata di Leverano e sorgeva nel ’600 …“dovè la masseria dé Goffreda nell’aia de l’Albaro”; e il catasto onciario di Leverano (sec. XVIII) registra: “Beneficio sotto il titolo di S. Vincenzo, de jure patronatus della famiglia Goffreda”. Di questa cappella non restano riscontri oggettivi ma solo memorie d’archivio.
Nel ’700 il complesso passa alla famiglia Della Ratta e sono questi gli anni in cui l’antica chiesetta “S. Maria di Albaro” - che fino alla distruzione del casale (1373) aveva rappresentato la sua chiesa Parrocchiale - viene restaurata e dedicata alla “Vergine Neonata”. A memoria del culto e della devozione dei leveranesi alla Madonna di questa località, sulla porta d’ingresso un’epigrafe in latino ricorda:

A DIO OTTIMO MASSIMO
E ALLA VERGINE NEONATA MADRE DI DIO
QUESTA CASA È DEDICATA
FESTEGGIATA OGNI ANNO CON SOLENNE SUPPLICA
DAL CLERO E DAL POPOLO DI LEVERANO
ROVINATA DALLA VECCHIEZZA E DALL’OFFESA DEI TEMPI
ANNIBALE DE LEO
PATRIZIO E ARCIVESCOVO DI BRINDISI
CON LA SUA PARTICOLARE LIBERALITÀ
CON LA QUALE SI STUDIA DI ESSERE DI AIUTO A TUTTI
E DI DANNO A NESSUNO
E COL CONSENSO DEL CLERO E DEL POPOLO
L’AFFIDÒ PER I RESTAURI ALL’AMICO BENEMERITO
GIOVANNI DELLA RATTA
PATRIZIO LECCESE
DANDOGLI IL DIRITTO DI PATRONATO
E PERCHÉ NON MANCASSE NIENTE A TALE OPERA
E PROVVEDENDO PRINCIPALMENTE ALL’ISTRUZIONE
RELIGIOSA DEI CONTADINI
SENZA BADARE A SPESE
IL PADRE GIACOMO DELLA RATTA
UOMO A NESSUNO SECONDO PER PIETÀ
AFFINCHÈ RIMANESSE SALDA NEL TEMPO
LA COSTITUÌ COME DOTE EREDITARIA
E CURÒ CHE FOSSE RIPORTATA A FORMA MIGLIORE E PIÙ BELLA
E LA POSE COME MONUMENTO PER I POSTERI
1° MAGGIO 1800.
All’interno della cappella, sulla porta d’ingresso, il frammento di un affresco reca l’esortazione: DOMUS / DEI / (D)OMUS / ORATIONI(S) / (N)ON SCURRILITATI(S) / STULTILOQUI: “Casa / di Dio / Casa / di preghiera / non di volgarità / (né) di stolto eloquio”.
Lo stretto legame tra la Chiesa SS. Annunziata di Leverano e la chiesetta “S. Maria di Albaro” è confermato da un Manoscritto datato 1789 conservato presso l’Archivio Capitolare della stessa Collegiata che così annota:

…«il Capitolo e Clero di questa insigne Collegiata Chiesa ab immemorabili due volte l’anno si porta processionalmente a cavallo in una Chiesa di detto Baro [Albaro] a cantar Messa nel giorno della Natività della Vergine SS., dove adempiscono al Precetto Pasquale gli abitatori delle vicine Masserie ed altri, che si comunicano alla Messa Cantata, ed un Chierico coll’abito corale [la cotta prevista per lo svolgimento di alcune funzioni liturgiche] esce colla Croce di quella Chiesa, che fu parrocchiale, per ricevere il Capitolo, che scende da cavallo vicino la detta Chiesa, e s’incammina processionalmente colla propria Croce.» …

Queste due processioni avvenivano nel giorno dell’8 settembre (Natività della Vergine SS.) e il primo giovedì dopo Pasqua (Pasquetta, “Urteddhra” in vernacolo).
È interessante osservare che molti paesi del Salento includevano nel proprio feudo una cappella agreste nella quale si osservava un particolare culto. Il rito era in genere teso a impetrare la pioggia nei periodi di estrema siccità e sovente consisteva nel portare in processione la statua del santo a cui la richiesta era rivolta. Alla cosiddetta chiesetta “ti lu Aru”, era uso portare la statua di S. Rocco (protettore di Leverano) con in bocca una sardina affinché, stimolandogli la sete, favorisse la pioggia.
Nella seconda metà del ’700 il casale Albaro cambia ancora la sua destinazione d’uso divenendo un complesso residenziale sub-urbano dall’architettura sobria ed elegante. Le sue linee di facciata e d’impianto manifestavano la premura di una cultura abbiente che riservava alla stagionalità - intesa come rapporto privilegiato tra territorio e attività rurali - una particolare attenzione. Il suo assetto strutturale e formale polarizzava lo sguardo del visitatore soprattutto per le due grandi arcate dal caratteristico disegno riscontrabile nei casini (piccole case signorili di campagna) tipici del tardo settecento. La facciata principale si presenta ancora oggi con due elementi voltati e arretrati aventi funzione di accesso. Tali arcate sono valorizzate da cornici e sovrastate dalle incastonature dei rispettivi stemmi gentilizi degli antichi proprietari. L’arcata di sinistra - che permette l’ingresso alla cappella - espone lo stemma gentilizio della famiglia Della Ratta; l’arcata di destra - dalla quale si accede alla residenza - presenta quello della famiglia Venturi.
Il visitatore era certamente colpito anche dall’effetto abbagliante della luce riflessa dal bianco della calce, dalle proporzioni del suo prospetto che evidenziano uno sviluppo più in orizzontale che in verticale, nonché dallo svettante campanile a vela dove primeggia ancora la scritta: «MATER DIVINAE GRATIAE».



Ipotesi etimologiche
Una possibile etimologia deriverebbe il nome Albaro dal termine greco αλβάριος (albarios) assimilato poi nel latino albārĭus: “imbiancatore, stuccatore”. Albaro, dunque, sarebbe stato un luogo dove si produceva calce…? O dove maestranze provvedevano a intonacare muri…?
Una seconda possibilità vedrebbe la sua derivazione da “alba” e “ara”: “altare bianco”, ma anche “rifugio bianco” o “protezione bianca”. È noto, infatti, che negli usi della cultura pagana rifugiarsi in luoghi sacri assicurava protezione dal nemico che, in caso di offesa o di delitto, avrebbe commesso empietà. E ancora, tenendo conto dei contatti che intercorsero tra Albaro e “Sasinae portus” - dove sappiamo che già dal VI secolo a.C. esisteva un’area dedicata al culto della dea messapica “Thana” - tale ipotesi orienterebbe proprio verso questa divinità. La leggenda relativa alla dea racconta di una giovinetta pura e indifesa che - assalita da un bruto - chiamò la Luna in sua difesa la quale, con i suoi bianchi raggi, riuscì a spaventare e mettere in fuga il malintenzionato. La Luna stessa investì poi Thana del titolo di “Dea della Luna” e regina di tutti gli incantesimi. Più tardi, nel 313 d.C., l’editto di Costantino conferirà al cristianesimo un ruolo privilegiato e dominante tra le tante religioni che Roma consentiva di professare liberamente nell’Impero. Pertanto, in origine, Albaro avrebbe potuto accogliere un piccolo tempio dedicato alla dea Thana che successivamente sarebbe stato ridedicato a qualche protomartire dell’ormai dominante cristianesimo…?
Un’altra suggestiva e interessante ipotesi glossologica attribuisce invece al termine Albărus una derivazione tardo-latina formatasi per incrocio dei termini arbor (albero) con albus (bianco) che, in un primo tempo, assume il significato di “albero bianco”, poi di “pioppo bianco” e infine, semplicemente, di “pioppo”. L’etimo troverebbe conferma storica nella presenza, fino agli anni ’30 del secolo scorso, di una schiera di pioppi e cipressi esterna alle mura posteriori di questa antica struttura. Nell’antichità il pioppo e il cipresso erano considerate piante funerarie; la presenza di tali alberi e il rinvenimento di alcune tombe consoliderebbero così la tesi secondo la quale - antecedente la nascita del casale - il luogo abbia ospitato un’area di sepoltura. Questo in accordo con gli usi dei periodi tardo-antico e alto-medioevale che permettevano lo sviluppo di tali aree solo in zone extraurbane, presso piccoli nuclei prediali, in prossimità della sepoltura di un martire (ad sanctos), o in luoghi di culto (apud ecclesiam). Ad avvalorare tale ipotesi concorre altresì l’espressione dialettale locale che in passato traduceva l’immagine del cimitero con: “alli chiuppi”, termine alquanto assonante tanto a “pioppi” quanto al greco “κυπάρισσοι” (kyparissoi) “cipressi”. È altresì noto che le credenze antiche vedevano tanto nel pioppo quanto nel cipresso il simbolo della vita dopo la morte.

I miti legati al pioppo
L’antica civiltà minoica racconta che sul monte Ida a Creta - davanti alla caverna che si riteneva fosse la tomba dello Zeus cretese - era posto un pioppo bianco, simbolo della rinascita di una vegetazione che muore solo per rinnovarsi. Dalla mitologia classica sappiamo che un pioppo bianco si ergeva all’ingresso del regno di Ade, il dio dell’Oltretomba, a custodia di quanti erano costretti ad entrarvi.
Tra i miti greci legati al pioppo uno di essi racconta di Fetonte - figlio del dio Elio e della ninfa Climene - cresciuto senza conoscere il nome del padre. Divenuto adolescente la madre gli confidò chi fosse suo padre e il desiderio di Fetonte di incontrarlo fu talmente forte che subito si mise in viaggio verso il suo palazzo. Elio, commosso dalla manifestazione di tanto amore, concesse al figlio di guidare il suo cocchio solare dall’alba al tramonto, benché esitasse ad affidargli un compito tanto importante. Fetonte si pose così alla guida del carro solare e si mosse in direzione della rotta da percorrere, ma alla vista degli animali dello zodiaco si spaventò e si spostò troppo in basso, rischiando di incenerire la terra. Quindi salì verso l’alto, tanto in alto che gli Astri se ne lamentarono con Zeus il quale fu costretto a punirlo scagliandogli contro un fulmine. Colpito al petto Fetonte cadde nel fiume Eridano (mitico fiume di cui si pensa trattarsi del Po) e le sue sorelle, le Eliadi, piansero lungamente per il dolore. Mosso a compassione Zeus le trasformò in alti pioppi cipressini che allineò lungo l’argine dello stesso fiume. Le loro lacrime divennero gocce d’ambra che stillano dai rami di quest’albero e che il sole indurisce. In primavera, infatti, dalle gemme dei pioppi neri cadono goccioline di resina che simboleggiano le lacrime delle Eliadi e lo stormire delle foglie ricorda i loro lamenti.
Una delle versioni più antiche di questo racconto è quella riportata da Apollonio Rodio, poeta ellenistico del III sec. a.C., che nel IV libro delle “Argonautiche” segue la nave Argo in Occidente, mentre si addentra nelle correnti dell’Eridano:

…«penetrarono profondamente nella corrente dell’Eridano, dove una volta, colpito in petto dal fulmine fiammeggiante, a metà bruciato Fetonte cadde dal cocchio del sole nelle acque di questa profonda palude, ed essa ancor oggi esala dalla ferita bruciante un tremendo vapore... (IV, vv. 596-600). (…) Tutt’intorno le giovani Eliadi, mutate negli alti pioppi, effondono miseramente un triste lamento, e dagli occhi versano al suolo gocce di ambra splendente; queste si asciugano al sole sulla sabbia, e quando le acque della sacra palude bagnano le coste al soffio del vento sonoro, allora tutte compatte sono trascinate rotolando verso l’Eridano dalla gonfia corrente»... (IV, vv.603-611).

Un altro mito racconta di Leuke, la meravigliosa ninfa figlia di Oceano che per sfuggire ad Ade, invaghitosi di lei e che voleva per sé, si trasformò in un pioppo bianco. Lo stesso Ade la condusse poi nel suo mondo ponendola accanto alla magica fonte Mnemosine (la fonte della Memoria), alla quale si dissetano le anime il cui scopo è di ricordare l’eccezionale esperienza ultraterrena. Leuke simboleggiò così la vita che sfugge alla morte a condizione di abbandonare la forma umana. Posta all’ingresso dell’Oltretomba Leuke ridava la speranza perduta con la morte a coloro che ne varcavano la soglia. Il racconto di questo mito è inciso sulla laminetta aurea di Petelia (antica regione con cui i Romani identificavano la parte meridionale dell’attuale Calabria) risalente al IV-III sec. a.C.:

«E troverai alla sinistra delle case di Ade una fonte, e accanto a essa un bianco cipresso diritto: a questa fonte non accostarti neppure, da presso. E ne troverai un’altra, fredda acqua che scorre dalla palude di Mnemosine, fresca acqua sgorgante»…
A conferma di tale mito interviene una leggenda nata a Olimpia che racconta di Eracle (Ercole) che, per la riuscita della sua dodicesima fatica - la cattura del cane infernale Cèrbero: guardiano dell’Ade - colse dei rami dal pioppo di Leuke e ne intrecciò una corona che pose sul suo capo. I fumi, il calore e l’aria putrida degli Inferi tinsero della tipica colorazione verde scura la superficie superiore delle foglie del pioppo, mentre la parte interna, a contatto col sudore dell’eroe e della luminosità della sua fronte, divenne di un colore bianco-argento. Da allora il pioppo bianco coronò la fronte di coloro che avevano percorso i due mondi senza smarrirsi e simboleggiò il cammino verso una nuova vita; il passaggio dell’eroe dall’oscurità a una nuova condizione di luce; il trionfo della vita sulla morte. Il viaggio di Ercole può essere interpretato come il percorso dell’uomo che intraprende il viaggio nei meandri più oscuri della sua interiorità, luogo dove risiede la zona più buia e misteriosa di sé che, illuminata e sconfitta dalla conoscenza, si apre alla rinascita spirituale. È proprio nel contrasto cromatico delle due superfici della foglia che il mito raffigura questo cambiamento.

Usanze e credenze
Secondo le usanze tradizionali, i rametti di pioppo intrecciati potevano essere posti sulla porta d’ingresso di casa per proteggersi dalle malattie, mentre si potevano inserire in un sacchettino da porre sotto il cuscino per avere un sonno tranquillo e bei sogni. Se invece il sacchettino fosse stato portato addosso ci si sarebbe assicurati una lunga vita e una protezione dalle fatture maligne e dal malocchio. Se si soffriva di febbre si poteva avvolgere un pezzo di stoffa intorno al fusto del pioppo per trasmettergli i propri tremori e di conseguenza la febbre. Oppure si potevano porre le unghie del malato in un foro praticato nella sua corteccia che poi veniva richiuso, se la corteccia fosse ricresciuta allora il malato sarebbe guarito. Sempre in caso di febbre, un’altra usanza prevedeva di appuntare sul tronco dell’albero una ciocca di capelli della persona malata, pronunciando una formula particolare e allontanandosi poi in assoluto silenzio.
Nell’antica Roma il termine “pioppo” era legato al “populus” (popolo) poiché la sua folta chioma, mossa dal vento, produce un brusio che ricorderebbe appunto il mormorio delle folle radunate nelle piazze. La stessa peculiarità ha probabilmente indotto i nativi americani a definirlo “L’albero che sussurra”. Gli Indiani Dakota considerano il pioppo “l’Asse del Mondo” che unisce simbolicamente il cielo con la terra. In occasione della “Danza del Sole” un pioppo viene tagliato e posto al centro della capanna in cui si svolge il rituale, la danza viene eseguita intorno all’albero che rappresenta “Wakan-Tanka”: il “Grande Spirito”.
Dalle tradizioni e credenze collegate a quest’albero, nate probabilmente da una saggezza antica che dava ascolto alla voce della Natura e degli alberi, si può intuire lo spirito del pioppo. Esso rappresenta la protezione, la forza interiore, lo scudo che aiuta a proteggerci da ciò che può ferire o compromettere la parte più preziosa e pura di noi: l’Anima. Con la sua forza e la capacità di rigenerarsi rapidamente il pioppo ci aiuta a fare lo stesso soprattutto nei momenti di particolari “crisi”, siano esse minimi cambiamenti quotidiani o vere e proprie conversioni esistenziali.
Il suo dono più prezioso, infine, è quello di predisporre all’Ascolto dei “suoni silenziosi” della Natura; così il tremore e il canto delle sue foglie potrebbero realmente riverberare lo “Sidhe”: il regno ultraterreno del popolo fatato delle leggende celtiche; il messaggero del Divino, l’intermediario tra questo e l’altro mondo, l’eco che svela i misteri più nascosti, quelli non raggiungibili con la mente o con la sola volontà.
Il pioppo è una delle mille voci della “Grande Madre” e quanti vorranno ascoltarne il ritmo incantato della sua eterna danza troveranno qui, ad “Albaro”, quel sentiero che li condurrà alla verità dell’Anima, Voce che svelerà a ciascuno il mistero e la preziosa unicità di ogni esistenza.
Maurizio Quarta